Il ferrovecchio

Immagine: Giorgione Giuditta e Oloferne- anno 1504

Hai del ferro che non usi più?
Mi chiese l’autista.
Sferzai ricordi e ansia
trovai solo ironia.
I coltelli non più affilati
rifuggono gli inganni
restano come parassiti
pensieri rassegnati
ipotesi che non turbano.

Cosa vado a cercare
nell’imbarazzo sorridente
di un sindaco di campagna?
La giustizia, la verità?
Il sacro fuoco di un orgoglio
venduto a un simbolo?

Lascio ad asciugare la delusione
uscita dal profilo sfumato di me
infelice vecchia donna
che inciampa umidiccia
in un battito forsennato.

Alle tre arriva la fitta,
il risveglio impaurito
sferza l’apatia.
La tendina del cuore s’agita
al passare del notturno
desiderio d’eternità.
Dovrò cucirne l’orlo, con un filo
caldo, di lana e nero.

Dovrei smetterla di ripiegarmi
e abbassare lo sguardo…
Ho sognato di scendere da un ponte
attraversare la paura ridendo
spargendo fuoco e cenere
dubbi a pezzetti da affumicare
con delicatezza. Ignorare il leone
accucciato accanto ad una tigre
è un’arte.

10 risposte a "Il ferrovecchio"

  1. Si, cara Elisa, non avere paura delle cose più grandi di noi che inquietano è un’arte che si chiama menefreghismo. Purtroppo certe cose non si possono lasciare andare, anche se si avrebbe voglia di soprassedere. Dobbiamo avere perseveranza ed affilare l’arte del combattere, affilare di nuovo quei coltelli che abbiamo lasciato lì perché pensavamo di non averne più bisogno e, invece, in questo nostro tempo di disordini e sopraffazioni non possiamo mai abbassare la guardia. Un grande abbraccio!

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